tappero merlo

Storia e Valori

“La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.”

Gabriel Garcia Marquez

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le mie radici

Il Canavese è un’importante area del Piemonte, terra di italiani illustri che hanno reso grande il nostro Paese. Qui, tra il 1950 e il 1970, un forte vento innovatore ha ispirato e accolto l’avanguardia mondiale dell’elettronica raggiungendo l’apice nel 1965 con l’invenzione del primo personal computer al mondo, il mitico P101 della Olivetti di Ivrea. È in questo humus tecnologico, intriso di futuro, che ho vissuto per oltre vent’anni la mia prima esperienza imprenditoriale. Mi sono sempre nutrito di sogni ed ho sempre creduto che chi non ama il proprio territorio e non si batta per esso, non abbia rispetto dei propri avi perché proteggere e conservare ciò che per generazioni si è tramandato in un luogo è l’atto più estremo e rivoluzionario che oggi si possa compiere. Assistendo quindi impotente all’abbandono dei vigneti, al crollo dei terrazzamenti millenari, sentivo in me un forte senso di rivalsa, un moto di spregiudicato orgoglio che mi spingeva ad agire, a fare qualcosa.

Era il 2001 quando decisi di intraprendere una nuova avventura e di tornare alla terra, a quelle vigne che per generazioni avevano impegnato la mia famiglia. Il richiamo era forte, cercavo nuovi stimoli, volevo resettare tutto per ritornare alle origini e ripartire dalle mie radici per vivere una nuova vita che avesse al centro il vino, quello di mio nonno e dargli quel lustro che non aveva conosciuto. Desideravo che il nostro antico vitigno Erbaluce, fosse il mio compagno di viaggio. Sentivo la necessità di far riemergere quel sapere artigiano, quella creatività che ci caratterizza nel mondo, valorizzando l’identità culturale del luogo, offrendo qualcosa che lasciasse, a chi di passaggio, un ricordo, un’emozione. Volevo praticare la viticoltura di un tempo, quelle tecniche rispettose dell’ambiente, fatte di gesti antichi e pazienti osservazioni, rallentando, ricercando la semplicità, trovando piacere nel fare le cose per bene per lasciare un ricordo che sapesse di buono e di bello. Desideravo narrare le storie della mia terra attraverso il vino, trasferendo ad esso il carattere delle sue genti, l’asperità dei suoli, estraendo da quei suoli così poveri, il sapore delle Alpi e di quei minerali che il ghiacciaio Balteo aveva eroso ai fianchi delle montagne della Valle d’Aosta abbandonandoli poi come sabbie sulle ripide colline dell’Anfiteatro Morenico di Ivrea.

la mia filosofia

Credo che se una persona opera nel rispetto dell’ambiente che lo circonda, integrandosi con esso, senza compromettere equilibri e relazioni che in natura spontaneamente esistono, non necessiti di alcuna certificazione che attesti la bontà del suo operato. La lealtà al territorio è quindi fondamentale per ottenere risultati che siano testimonianza di autenticità e tipicità. Ed è così che si applicano in chiave moderna le tecniche agronomiche del passato. Una continua ricerca, riscoperta e rielaborazione di quanto di valido si praticava storicamente in loco ponendo particolare attenzione alla struttura organica dei suoli, praticando il sovescio mirato con leguminose, graminacee, asteracee per migliorare la fertilità dei terreni molto acidi.

I trattamenti sono a basso impatto ambientale, con prodotti naturali a base di estratti vegetali di erba medica, alghe brune, barbabietola, aloe vera, yucca, propoli, castagno, olio essenziale di arancio dolce, oltre a specifici batteri, lieviti, microelementi e biostimolanti fogliari, latte vaccino e un ridotto impiego di rame e zolfo. Si favorisce lo sviluppo della flora spontanea e della fauna tipica del luogo per contribuire al naturale equilibrio tra le specie. I suoli sono abitati da lombrichi, maggiolini, api, scarabei, ognuno dei quali contribuisce all’equilibrio del vigneto. Il concime organico viene autoprodotto con la tecnica del compostaggio in cumulo e lo si abbina a micorrize e a biostimolanti radicali.  Si pratica poi la tecnica della confusione sessuale a base di feromoni per contrastare la riproduzione della tignola e della tignoletta e di esche per la cattura di vespe e calabroni. Per ottenere infine un’uva ideale alla produzione dei nostri vini, le barbatelle sono ricavate da materiale di moltiplicazione prelevato direttamente da piante madri di nostri vigneti, certificati campi prelievo, e fatti innestare da un vivaista di fiducia su portinnesti specifici.

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storia e valori

La viticoltura in Canavese

La qualità di un vino è strettamente legata al territorio di origine, al clima, ai vitigni impiegati e al talento dell’uomo che nel tempo ne ha saputo esaltare le caratteristiche. 

I canavesani sono vignaioli da sempre e prima ancora che i Romani, conquistassero il Canavese, i nostri avi, coltivavano  la vite che era già presente in loco  nell’età del bronzo, come risulta da uno scavo archeologico. Verso la fine del V secolo a.C. i Celti transalpini (Salassi e Taurini), valicarono le Alpi e arrivarono in massa in Italia attratti dal clima e dalla fertilità delle terre. Essi appresero dagli Etruschi le tecniche di coltivazione della vite e della produzione del vino. I loro vini erano molto diversi da quelli odierni, ma già allora era in uso la conservazione e l’invecchiamento in botti di legno. Con la caduta dell’Impero Romano, la produzione di vino subì un forte arresto e fu solo grazie alla riforma di Carlo Magno che la viticoltura ripartì con un nuovo slancio. Nel frattempo le viti conosciute fino ad allora andarono probabilmente perdute. I primi documenti canavesani a tutela della viticoltura risalgono al 1200. Nel corso degli anni, due vitigni in particolare si adattarono al clima e al terreno canavesano: il Nebbiolo e l’Erbaluce. Nel corso dei secoli la viticoltura in Canavese divenne sempre più importante e il vino rappresentò a lungo la voce più importante dell’economia canavesana, diffondendosi fuori dai confini locali. Fu in particolare alla fine del 1700 che raggiunse la sua massima espansione e da un censimento commissionato dal Regno di Piemonte e Sardegna nel 1819, i vigneti avevano un’estensione di ben 12.500 ettari. Negli anni del Risorgimento, dell’Unità d’Italia, i vini canavesani erano considerati i migliori vini del Piemonte e nel 1867,  i vini del Castello di Loranzè furono definiti eccellenti all’Esposizione Universale di Parigi, mentre quelli di Caluso furono premiati con medaglia d’oro a Parigi e a Londra. Dal vitigno Erbaluce si ottenevano vini di lusso che nei grandi ristoranti torinesi avevano quotazioni pari o superiori ai più rinomati vini francesi dell’epoca al punto che il passito di Caluso era indicato in alcune carte dei vini come Sauternes di Caluso.

Il passito è certamente la versione più storica, celebrata da sempre per la sua eleganza, e avrebbe origini molto antiche e risalirebbe alla dominazione romana. Di certo l’Erbaluce, con la sua buccia spessa, rappresentava per le famiglie contadine il frutto ideale da consumare durante l’inverno. Giunti a marzo, pigiando l’uva rinsecchita rimasta, si otteneva un nettare dolcissimo dai vari impieghi: tonico e corroborante per gli affaticati, finissimo liquore offerto agli ospiti, dono battesimale consumato al raggiungimento della maggiore età, celebrativo nei festeggiamenti di un matrimonio. Un vino presente in tutte le famiglie canavesane, seguito dalle donne di casa che con pazienza certosina curavano le piccole produzioni familiari.

L’Erbaluce è la principale uva a bacca bianca del Nord Piemonte e trova nel Canavese e, più in particolare nell’Anfiteatro Morenico di Ivrea, la sua terra di elezione. 

Le teorie che portano l’Erbaluce nel Canavese sono diverse, e hanno in comune l’origine nella piccola località greca di Monemvasia, nel Peloponneso. Una di queste attribuisce l’arrivo del vitigno in Canavese al seguito delle legioni romane e troverebbe similitudini col Fiano della Campania, mentre l’altra invece ipotizza sia giunta dalla Valle del Rodano, con Carlo Magno, alla caduta dell’Impero romano e avrebbe corrispondenza con il vitigno Clairette. Tuttavia, la teoria più accreditata e supportata da studi genetici è quella che vuole che sia un’uva indigena che nel tempo si è evoluta e adattata nella fascia pedemontana alpina tra Piemonte, Valle d’Aosta, Savoia e Vallese.

Le popolazioni dell’Anfiteatro Morenico di Ivrea credono però a una terza teoria che rimanda all’origine leggendaria del vitigno: un’uva originatasi dal pianto della Ninfa Albaluce, figlia del Sole e dell’Alba, lacrime intrise d’amore per le genti della sua terra.

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